“IDENTIKIT” Forlì – Oratorio San Sebastiano
a cura di marisa zattini – aprile 2012
IDENTIKIT, RITRATTO E IBRIDAZIONE
Viva carne in puro spirito!
di Marisa Zattini
«Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. […] Essi sono irriducibili l’uno all’altra […] Ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice. Altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini […] ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono, non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi»
(Michael Foucault, Le parole e le cose)
L’identikit nasce come concetto per ricomporre il ricordo, l’immagine di alcuni particolari fissati in pochi istanti nella mente e riferiti, solitamente, ad una persona reale, in “carne e ossa”. Il processo immaginario innescato da CARLO RAVAIOLI scava “in apparizione” in quanto “second life” – al quale un terzo della mostra si riferisce – è terra di Avatar, vale a dire terra di fantasia e di gioco. Il virtuale come alternativa e completamento reale: uno scambio simbolico e una rottura postmoderna, come sosteneva Baudrillard, fra i valori capitalistici imperanti – schiavi dell’impe-rativo di consumo e utilità, lavoro e profitto – e la possibilità di libertà di scelte. «L’idea centrale è che l’economia che governa le nostre società risulta da una appropriazione in-debita del principio umano fondamentale, che è un principio solare di consumo» (Jean Baudrillard).
Perché l’uomo di oggi sente il bisogno di ricercare quelle opportunità che il reale ci nega. Second life sembra offrire il “riscatto” dal nodo e dalle malinconie del quotidiano. Offre una ulteriore realtà modellabile a nostra discrezione. E poiché il tempo presente sembra avere ormai consumato tutto ecco che il virtuale fornisce “una scorta di futuro”. E la memoria corre a Platone – Il mito della ca-verna (390 a.C.) – a Ludwig Andreas von Feuerbach – La vittoria dell’apparenza sull’essere (1841) – a Gilles Deleuze – Différence et Répetition (1968) – e a Tomás Maldonado con L’indistinzione fra illusione e realtà (1992) per arrivare all’indagine di Angelo Romeo di Second Life.
Oltre la realtà virtuale: uno studio sociologico (Milano, ed. Lupetto, 2008). Ma se sul piano empirico è impossibile sperimentare la virtualità perché «il seme per essere virtual-mente pianta deve essere realmente seme» (Paolo Costa) sul piano concettuale non possiamo che convenire che il virtuale è uno stato dell’essere esattamente come il reale. Si ritorna stanchi da un sogno di fatica esattamente come dopo una giornata di duro lavoro! L’iperreale – che è il luogo dove reale e virtuale si confondono – dunque, può essere un fertile campo di ricerca… anche artistica come riconferma l’ultima ricerca pittorica di Carlo Ravaioli. L’iperreale come simulacro. Second life parla di Avatar che sarei portata a immaginare frutto di innesti, protesi e cyborg. Anche se non è esattamente così. Second life offre la possibilità di transitare da un luogo all’altro, da un mondo all’altro. Ecco allora che il corpo umano e la realtà virtuale 3D si sono realmente connessi. Se nel 1977 Umberto Eco sottolineava che «L’immaginazione americana vuole la cosa vera e per farlo deve realizzare il falso assoluto; […] i confini tra il gioco e l’illusione si confondono» (Nel cuore dell’impero. Viaggio nell’iperrealtà), nel 1972 Jean Baudrillard poneva l’accento sull’an-nullamento della distinzione fra oggetto e rappresentazione operata dai media elettronici e sulla tra-sformazione dei “segni” che non sono più cose che stanno per altre cose bensì cose che sostitui-scono letteralmente altre cose. Carlo Ravaioli pone l’accento sulla de-realizzazione e sull’iperreale come ibridazione. Reale e virtuale: due mondi integrati come da sempre avviene nell’ambito dell’arte. Il Surrealismo ne era già un esempio eccellente.
L’identikit di un Avatar di fatto è metafora dell’impossibilità di individuazione. I particolari di un volto, di un corpo, di certe fattezze ricomposte e trasferite con un tratto quasi iperreale anche se smangiato e corroso nella pelle della pittura con un segno e un disegno da perlustrazione anatomica, ne fanno un ritratto molto reale, possibile, fruibile. La de-realizzazione, l’astrazione di un mondo qual è “second life” trova in questo immaginario percorso artistico una reale vita e una mescolanza con ritratti di figure concrete e reali del nostro mondo fissate in puntuali ritratti iden-titari e frontali. L’enigma della visione, dell’essere e dell’apparire, dell’esistere e del consistere è il fulcro di questo consapevole processo artistico-analitico; un ciclo di azione pittorica che Carlo Ravaioli indaga meticolosamente. A segnalare – come spesso accade nell’arte la labirintica tensione della fisionomica decifrazione dell’IO, della scomposizione e ricomposizione dell’essere. Di una vista (o svista) che regola il nostro mondo.
LETTERA DI UN AVATAR Mi chiamo Elyza, vi scrivo da Transparent Island 125,139,22 mia attuale residenza su Second Life, dove vivo da quasi 6 anni. Sono seduta alla mia scrivania in una stanza completamente a vetrate al secondo piano di una casa caraibica, da dove si scorge una vista stupenda. La mia casa è su di un’isola e da ogni finestra si vede il mare. Non piove mai, è sempre caldo e quando ho voglia di ascoltare il rumore del mare e del vento, prendo la mia barca a vela ed esco. Ho tanti amici conosciuti nel corso di questi anni, spesso organizziamo serate a casa mia oppure andiamo insieme in qualche locale alla moda. Non abbiamo bisogno di mezzi per muoverci da un posto all’altro…… qui ci si “teleporta”. Non ho telefono, computer televisione; non ci servono. Ora vi racconto un po’ della mia vita. Quando arrivai il primo impatto fu quasi sconfortante, non mi muovevo, non andavo da nessuna parte se non girare continuamente intorno ad un palazzo. Stavo già per desistere quando finalmente riuscii ad arrivare in Toscana. C’era il Molo di Forte dei Marmi e c’erano dei ragazzi che accorgendosi della mia goffaggine, mi aiutarono fornendomi indirizzi utili per trovare abiti, scarpe e oggetti che rendessero l’aspetto un po’ più “raffinato”. C’era gente che viveva in Second Life da molto tempo e che creava oggetti utili alla vita quotidiana. L’interazione era solo scritta, non si parlava, si dovevano percepire attraverso le frasi, gli stati d’animo, gli umori e le sensazioni. Ho anche incontrato avatar che io definisco “con l’anima” perché attraverso il loro alter trasmettono sensazioni che arrivano al cuore. Giravo per le varie terre volando, era sufficiente un click su un collegamento per portarmi da un posto all’altro. Incontravo ogni genere di personaggi, quando decisi di comprarmi un pezzo di terra su cui costruire la mia prima casa dove abitare. Era un pezzetto di terra piccolissimo, ma avevo tutto. Poi iniziai ad appassionarmi nel creare ambientazioni e costruire, scoprendo una parte di me che forse era nascosta in un qualche angolo remoto della mia mente così decisi di comperarmi un posto più grande. Presi due isole: in una ci misi la mia casa e nell’altra costruii case da affittare. Era tutto molto bello, avevo molte richieste e così con gli affitti mi pagavo parte delle spese per il mantenimento delle terre. In una delle case vivevano una coppia di miei amici: lui italiano lei italo-olandese. Si sono conosciuti durante una festa e dopo un po’ di tempo si sono sposati. Io non mi sono mai sposata ma ho convissuto un paio di volte. Ma la vita qui scorre veloce, fai in una sera tutto quello che faresti in una settimana, le relazioni interpersonali sono tante e le emozioni, quasi tangibili sono generate da atteggiamenti, da frasi. Nel corso degli anni ho perfezionato il mio aspetto, mi diverto a fare shopping nei negozi più alla moda, non ho bisogno di parrucchiere o di estetista, i capelli e i trucchi li acquisto… Sono quasi sempre abbronzata e ho diversi tatuaggi, i capelli quasi sempre lunghi. Con me vivono un Labrador, un cavallo e due pappagalli. Ho due sorelle, Azzurra e Dada che vedo ogni tanto e che stanno da me quando mi vengono a trovare. Non so quando lascerò questo posto, ci si sta bene, ma sicuramente quando me ne andrò da qui lascerò questo angolo di quiete e tranquillità a qualche mio amico di cui sarò certa che se ne prenderà cura.
La pittura, qui, è più che mai lente di ingrandimento emotivo che cerca di chiarire chi siamo, come ci percepiamo e come possiamo apparire allo sguardo degli altri. La lente deformante che ci ridisegna in mondi irreali come in “second life” può diventare territorio da esplorare e da documentare al pari di un mondo fisico reale, sembra suggerirci l’artista. Gli indizi verbali che conducono all’aggregazione di particolari per un identikit timbrico e codifi-cabile visivamente sono divenuti la sintassi figurativa di questo ultimo ciclo di opere del nostro artista. L’indagine sull’identità dà l’abbrivio ad un interrogativo non accidentale: qual è il confine tra reale e immaginario, dove il limite della nostra individuazione e identificazione? L’abilità pittorica di Carlo Ravaioli ha eliminato il confine dell’irrealtà degli Avatar, ha assimilato il “ritratto” quasi iperreale in consonanza descrittiva ed evocativa a quelli reali. Il “per sempre” contraddetto dal vivere si cristallizza ancora una volta nell’occhio trasformativo e progressivo dell’arte. La caccia al personaggio immaginario è aperta! Un trasbordo, questo, che sa di teatro, di recita, di finzione, di allusione, di costruzione, di appro-priazione, di fusione, di alterazione e di rubricazione. Il ritratto, da sempre, è storicizzazione, sta-bilizzazione per un imperituro ricordo… Carlo Ravaioli declina una prospettiva fredda per questi corpi che potrebbero essere naturalità di cose. «Amare è animare, le cose inanimate si animano se amate», scriveva Alberto Savinio. In un gioco di specchi Carlo Ravaioli ha spinto l’indagine del ritratto in un nuovo “virtuale” mondo, in un dispositivo che è segno del nostro tempo. “Second life”: un mondo sostitutivo del nostro non soddisfacente. Un’alternativa, una nuova possi-bilità per infiniti racconti, non di esistenza perché questa è fatta solo di emozioni, di sguardi, di con-tatti reali perché la vita va sempre abitata e agita pienamente. I paesaggi immaginati, gli incontri onirici è vero che possono avere occhi e colori, profumi e incanti in continuità di realtà immaginabili. Ma qui si parla di una differente prospettiva, di un sostitutivo – anche se parziale e temporalmente limitato – surreale in quanto surrogato del nostro vivere quotidia-no nel mondo. Lì, tutto scorre a scatti, a comparti e questo sproporziona il tutto. L’ibridazione è gioco silenzioso. La gabbia qui è chiusa anche se sembrerebbe apparentemente aperta e in dilatare. Non ci sono “angeli custodi” per questi, perché tutto quello che apparentemente è visibilio là dove la metamorfosi si trasmette per magiche assonanze e anamorfosi di fatto non ci proietta in quell’al-trove spirituale fondante per l’anima. Il gioco vorrebbe offrire l’emozione vibrata della vita vera a questi ipercorpi ma tutto è solo sogno e “natura morta”! “Second life” può essere assimilato a un “tableau vivant”, una sorta di teatro virtuale abitato da simulacri. Un sorta di racconto collettivo imprevedibile che prende vita e si sviluppa come una metastasi. Un sistema “attoriale” interdefinito e moltiplicatore. Carlo Ravaioli idiosincreticamente si inserisce e spia quanto accade in questo mondo parallelo com-pletando e inventando, di volta in volta, dando volto e corpo a chi ne ha già scelto uno immaginario. Il nostro Artista lo umanizza, lo raddensa e lo raggruppa quasi semioticamente; lo ristruttura umanizzandolo.
E il cerchio sembrerebbe richiudersi per questi personaggi, pedine di enigmi: un Avatar dal volto e dal corpo nuovamente “umano”. La riorganizzazione del volto e del corpo nel paradigma dell’umano, in sequenza frontale è un ibrido che nuovamente conferisce “umanità”, dunque un “limite”. Abbandonare per così dire il fantasma dell’angelo e riconquistare l’ombra per una possibile variante. Il “segreto” può essere infranto ma tocca solo a noi decidere cosa fare e come essere… in perpetuo divenire. Il nodo della metamorfosi, per una rinnovata psicologia dello stupore, sembra ribadire che «l’uomo in statua è anche più sognante dell’uomo che sogna» (Schopenhauer). A noi oggi non interessa sapere chi è reale e chi no, scoprire il vero nome di ogni figura femminile qui rappresentata. Siamo chiamati a stabilire identità e attribuzioni nominali. Ciò che conta è il pa-radosso degli Avatar, l’interrogazione sociologica, la forza d’urto di questa artistica provocazione di ineccepibile grazia e bellezza. Il ritratto non è più inteso, dunque, come “traduzione” di un volto e di un corpo reali. L’occhio, fi-nestra dell’anima, ci rivela qualcosa di nuovo. L’umanizzazione conclusiva che Carlo Ravaioli ci regala e dona a questi Avatar tematizza un’indagine meta-scopica di quanto avviene in questi nuovi universi virtuali. Il simulacro moltiplicato di un’aspirazione identitaria costruita “a tavolino” si struttura e si enuncia in opera d’arte; si consegna al tempo, si solidifica acquisendo un valore metafisico. E così, la trasposizione realistica di un ritratto, innesta un nuovo ciclo di metamorfosi e mutazioni infinite. L’identikit va inteso qui come una sorta di trasformazione traduttiva. Umberto Eco parlava di “translatio” intesa giustamente come “cambiamento” mentre per Seneca “traducere” significava “condurre oltre”. Eccoci dunque davanti ad una sorta di perpetua reviviscenza, di stimolante rivelazione. Carlo Ravaioli mette in moto nuove relazioni dialogiche attuando ciò che è in fondo, da sempre, il compito dell’arte: produrre nuovi significati, generare nuovi sensi potenziali, attivare nuove rela-zioni. Ad ogni arte pertiene un “repertorio obbligato” che porta in sé un “tradimento” anche se ogni linguaggio agisce con l’altro in una sorta di “reciproco soccorso”. Già Jackobson parlava di una riserva di intraducibilità in ogni traduzione. Ma l’intraducibile si trasforma nuovamente in una nuova risorsa di informazione e in una straor-dinaria possibilità di rinnovamento. Carlo Ravaioli riesce a dare sostanza al virtuale e innesta una rilevanza sociologica al valore esteti-co dell’opera. Sette sono i ritratti sostanziati poeticamente per questi Avatar e quattordici i ritratti di persone realmente esistenti. Il tutto risolto in un cromatismo fonetico ineccepibile, raffinato e bellis-simo. Una trasduzione che si innesta e al contempo dilata il pensiero. Una mutazione che è riflessio-ne ulteriore sulle dinamiche espressive del ritratto, visto oggi nella nostra contemporaneità. Una deflagrazione metaforica che ci impegna a riflettere oltre a ciò che lo sguardo accoglie e racco-glie perché tutto si trasforma sempre in nuove significazioni. Steiner, sempre a proposito di “traduzione”, parla di un conferire all’originale «ciò che è già lì». «Io non cerco: trovo», ribadiva Pablo Picasso. Il dipinto «lo arricchisce perché esteriorizza e dispiega visibilmente certi elementi di connotazione, certe risonanze armoniche, certi significati latenti, certe affinità o opposizioni con altri testi […] aspetti che sono tutti presenti, tutti “lì” nell’originale sin dall’inizio» (G. Steiner – Un’arte esatta, 1996 Ed. Garzanti). Carlo Ravaioli ha scelto, per questa mostra forlivese, di transitare e muoversi fra un mondo virtuale e un mondo reale per una trasduzione critica, riflessiva, estetica. Questi dipinti sono una sorta di co-testo pittorico: un isomorfismo strutturale che prende l’abbrivio nella seconda parte dalle suggestioni di “second life”. Sono ritratti pittorici che si pongono in una sorta di asse obliquo, trasversale; in una falda che irrora diversificati piani espressivi.
Il ritratto pittorico si fa ponte e crea risonanze parallele. La pregnanza e l’efficacia espressiva di questi ventun ritratti eseguiti da Carlo Ravaioli non può essere, come sempre, restituita pienamente dalle parole. Poniamoci dunque in frontalità di pensiero e dilatiamoci in nuove prospettive. Empaticamente. Ritratto come restituzione di un’illusione di realtà. Perché l’elemento perturbante innestato da Carlo Ravaioli riguarda la virtualità dell’identikit. La “rottura sospensiva” dell’enunciato produce una struttura ritmica a gabbia chiusa che come un filo rosso modulatore di tensione modifica il valore percettivo dell’opera, perturbandolo. Così ad o-gni prospettiva si pone una proposta di identificazione. Qui siamo nella piena frontalità, in una rap-presentazione che accende e modula carne, sfondo, vestiti… qui tutto vibra della stessa materia; tut-to è quiete e inquietudine in questa plastica e metodica organizzazione strutturale del dipinto. Un percorso percettivo dell’opera condotto magistralmente dall’artista per una piena e precisa presa estetica, in un crescendo di accentuazione visiva e cognitiva. C’è ritmo in queste rigorose costruzioni analitiche, combinatorie. Ogni singola composizione si espande nella complessa pluralità del tutto. L’intero processo emotivo si dilata e tutto avvolge. Cresce la tensione nella ieraticità sintagmatica di volti e di gesti, in un ritmo fatto di pause e di silenzi, di vuoti e di assenze in com-presenze. Tutto sembra tenuto nella sospensione dell’attesa, fra assonanze e dissonanze. Sono sguardi alla ricerca di altri sguardi – il nostro? – appelli per altri appelli in dislocate divergenze. Tutto esiste ed è già detto in sospensione e in filigrana. Tutto si fa teatro di affetti, di trasmigrazione, di tensione e di emo-zione. Una accumulazione di desiderio che si prefigura nelle radici dei corpi reali o intensamente sognati. Una conversione estetica visuale rappresa in variazione conversiva. La condizione del vivere femminile, oggi, è colta nella trasformazione continua di stati corporei e mentali. Processi sensoriali polifonici, stati virtuali trasfusi in un esemplare processo pittorico. Conversioni e travasi che lievitano la materia trattata, “tensivamente”. Una pittura dunque, fortemente orientata al senso estetico come ipertesto e oscillazione passionale. Per una costruzione e de-costruzione empatica. L’enunciato che Carlo Ravaioli ci offre si attua su di un binario differito. L’accesso è sempre aperto per chi ha desiderio di approfondimento ulteriore, al di là del primo impatto emozionale con l’opera. Questi ritratti sono bellissimi! Tutti risolti nelle modalità classiche di un disegno ineccepibile che sottende e struttura l’architettura dell’opera, con una capacità tecnica fortemente esibita. Sodi studi di disegno anatomico. Così le mani, il corpo, i gesti, gli occhi, tutto è magistralmente “tenuto” e risolto in straordinario virtuosismo calligrafico. Raffinati cromatismi e vellutate superfici a dare sostanza a queste magiche visioni.
Marisa Zattini, gennaio 2012