“Ospiti del nessun luogo” Forlì – Oratorio San Sebastiano

 a cura di Nicola Micieli – febbraio 1998

In un breve scritto accompagnatorio d’un suo agile dossier – florilegio di capziose parole e repertorio di immagini “scorticate” dalla lettura dello scanner – giuntomi tempo fa, complice premurosa Marisa Zattini, quale anticipazione di un incontro “de visu” con le opere di Carlo Ravaioli, che sarebbe dovuto avvenire, ed è avvenuto, dopo poco, mi colpirono alcuni dati intrinseci, più che i dichiarati contenuti informativi di quel fragile materiale cartaceo.

Vi si coglieva, anzitutto, la premura con cui Ravaioli confessava la propria ansiosa ricerca di un “altrove” cui guardare come all’isola della vagheggiata, per quanto provvisoria compiutezza. Diceva di un percorso praticabile, l’artista: di un’auspicabile sua defluenza a un ristretto e fors’anche semplificato campo d’azione, dal mare magnum di una sperimentazione visiva applicata cui si era sino a quel punto dedicato, quale autore di strisce e grafico pubblicitario. Ossia in veste di creativo aperto a ogni contaminazione funzionale dei codici, nell’universo della comunicazione multimediale giocoforza indotta alla rapida mutazione linguistica. Nel suo immaginoso dossier Ravaioli prefigurava e annunciava l’approdo, insomma, a un ambito espressivo 
individuabile, e senza reticenza alcuna riconosciuto come pittura. E intendeva la pittura nell’accezione canonica del termine: quella certa prassi generativa della visualità che per essere un linguaggio fondato su un corredo relativamente ridotto di elementi formali, doveva imporre, a suo dire, anche una più netta demarcazione stilistica. Dunque enuncleare un tratto di identità altrove giudicata aleatoria, e che per Ravaioli rappresentava, al contrario, un obiettivo urgente sul piano dei riscontri psicologici, e primario su quello della ricerca artistica. Un punto fermo espressivo, insomma, nell’inarrestabile flusso informativo dei media manipolati a fini promozionali: un ancoraggio alla densità interiorizzata del vissuto nella generale deriva esistenziale.
Le irrituali immaginette di quel dossier mi parvero, inoltre, quasi stranite figure di un singolare carnet di viaggiatore curioso.

Memorie visive, più che icone. Piccoli monumenti nel senso etimologico: rilievi o cammei al cui margine, per sovrappiù di sensibilità e ulteriore acchito immaginativo, l’artista aveva sentito il bisogno di aggiungere annotazioni di carattere in apparenza stravagante: vuoi frasi epigrafiche di echeggiamento simbolista, vuoi più estese didascalie d’intenso respiro concettuale, però paratattiche e divaganti.

Sulle altre suggestioni e con una certa icasticità d’impressione, pur nella compiutezza degli impianti costruiti sulla base d’un disegno sicuro, per quanto di tracciato impreciso e sghembo, a sorreggere la pezzatura tarsica del colore, più netta si profilava l’idea d’una costellazione visiva che faceva pensare ai frammenti mallarmeani, alla rapsodica rifrangenza delle schegge poetiche per il cui tramite la concatenazione analogica delle metafore schiude un inestricabile labirinto di sensi.

lettera rosaIl che rendeva evidente la natura ambigua, irrisolta perché irriducibile a visione unitaria, di un mondo all’apparenza giocato sulla chiara referenzialità dell’immagine: intese, le figure, quali protagoniste silenziose di un dramma senza scioglimento, in quanto dato in potenza, o implicato nella misteriosa schermaglia di sguardi e insinuazioni gestuali, consumato nel solo manifestarsi delle persone in posa davanti allo sguardo del pittore; concepiti, gli sfondi, quali cornici di impeccabile coerenza strutturale a quell’epifania di figure araldiche, per così dire, scene emblematiche di un luogo consacrato all’inazione.

Per vero, una ragione d’interesse consisterebbe nel computo e nella verifica dei depositi e delle contaminazioni operati sui dipinti dai codici eteronomi all’artista confidenti, e d’uso normale nella pratica professionale. Dico le nuvolette dei cartoons qua e là inserite a visualizzare i pensieri delle figure; le frecce segnaletiche utilizzate come vettori direzionali a orientare i percorsi degli sguardi; l’impaginazione a smarginare delle figure nello specchio visivo, con inquadrature ardite d’ottica cinematografica; le basi fotografiche su cui talora viene stesa la materia pittorica, per ottenere immagini ambigue e vagamente aliene. Ma prendendo atto di siffatti elementi che appartengono al laboratorio linguistico del pittore, bisogna riconoscere che nel loro insieme essi non sembrano determinanti. Almeno non tanto da indurre una più attenta ricostruzione delle fonti, sicché mi par sufficiente averne accennato rimandando ad altro contesto un eventuale approfondimento.davanzale

Ho potuto conoscere, invece, com’era previsto, buona parte dei dipinti che compongono il presente ciclo degli “Ospiti del Nessun Luogo”. Mi sembra che sia stato pienamente centrato l’obiettivo dell’approdo all’isola appartata ove riconoscere una propria più fondata identità stilistica. La quale risulta costruita per buona parte sulla proprietà squisitamente materica e sedimentale della superficie pittorica, un dato di concretezza che segnala il bisogno di assegnare a un luogo fisico i sogni e le divagazioni immaginative.

I frammenti lapidei dipinti come particolari di una più ampia immagine, ne sono la tangibile conferma. Su tale sustrato Ravaioli interviene con la chiara profilatura del disegno, il che significa con un impalcato lineare che pur sottile, in origine sembra la legatura plumbea d’una vetrata, ossia possiede la stabilità di uno scheletro architettonico che qualifica l’impianto delle figure e nel contempo la struttura dello spazio d’ambientazione, che a quelle si stringe in rigorosa correlazione plastica.

Esse sono piuttosto la risultante di vettori dinamici a un punto critico di tensione e in provvisorio bilanciamento, per cui l’immagine assume l’aspetto ambiguo di uno spazio onirico.

La seconda ambivalenza su cui vorrei soffermarmi riguarda un particolare e ricorrente tratto tipologico dei volti delle figure, in cui si fissa la duplice provenienza e destinazione dello sguardo. Consiste, siffatta specificità, nella disposizione e nell’orientamento degli occhi, qui propriamente specchi dell’animo nel senso che svelano intenzioni psicologiche e implicazioni mentali con la loro differenziata funzionalità visiva. Ebbene, gli occhi guardano verso direzioni divergenti e anche opposte dello spazio. Se l’uno ti scruta con imbarazzante fissità, l’altro osserva traverso un luogo celato, magari oltre il muro che delimita in profondità la fuga prospettica verso l’orizzonte, e indica una dimensione irrilevata ma altrettanto concreta del reale: quel che c’è oltre il limite del visibile, o che si dà nella latenza della psiche o nella proiezione immaginativa della memoria.

Vorrei chiamarlo strabismo, codesto sdoppiamento, e magari nella schizofrenia ottica riconoscere la maschera dell’artista il cui sguardo mentale è in grado di attraversare immune lo schermo folgorante della luce, e attingere alle latebre del profondo le immagini sepolte dell’altrove. Ossia del luogo di “nessuno”, secondo la definizione che della topografia metafisica dà Ravaioli quando chiama al proscenio del mondo, nel recinto enigmatico di una stanza o di un paesaggio, i personaggi del dramma senza azione che si consuma con il loro silenzioso manifestarsi di simulacri nello spazio virtuale della pittura.

E nella conquistata identità della pittura mi pare che l’artista forlivese possa oggimai tentare altre possibili apparecchiature drammatiche, altre contaminazioni di immagini e parole idonee a rappresentare gli eventi inesprimibili dell’essere, che pure si manifestano con pungente senso di verità negli attimi consueti della vita quotidiana. Dico il fluitare e il posarsi di una foglia, il soffio del vento che piega i cipressi sul crinale delle colline, il posare assorto delle creature, il grido rattenuto di una donna al passaggio obliquo di un segnale di morte avvertito per rabdomantica sensibilità nel cielo calcinato che la sovrasta.

Nicola Micieli,   Novembre 1997