i giardini del non essere le città invisibili dei filosofi 26 Apr

carlo ravaioli “La Città dei Filosofi” olio su tela cm. 90×180 – particolare: I giardini del non essere

Il lato oscuro del pensiero filosofico

Ripercorriamo con lo sguardo le facciate dei templi dirigendoci verso il lato in ombra del complesso monumentale. Le chiese un tempo riservavano, per il cimitero, il terreno a nord freddo e sempre nascosto dal sole per sottolineare l’assenza di luce della morte. Anche qui, nella città dei filosofi, abbiamo un campo dedicato al non-essere delimitato  a sud  da un grande tempio anonimo, a est da un tratto di mura della città e per il resto dai “dietro casa” di altre costruzioni. Il giardino sembra veramente voglia richiamare un antico camposanto: un cipresso solitario e triste, una casetta minuscola che richiama una cappella funeraria e arbusti sparsi come lastre epigrafiche.

In realtà va visto come luogo dell’assenza parziale. Il “non essere” assoluto non è sperimentabile ne pensabile o concepibile, fa parte delle intuizioni che si collegano ai paradossi, anche in questo caso serve trovare un punto di osservazione e un oggetto da osservare per poter poter elaborare un pensiero che possa anche lontanamente avvicinarsi all’idea del non essere. I filosofi eleatici hanno molto ragionato su questo concetto e la scelta di quelli moderni di dedicare loro una intera città significa che ancora oggi pare essere un argomento molto trattato. Mettiamo da parte le considerazioni storiche e ci incamminiamo verso il centro del campo dove sorge la piccola costruzione quadrata e per la prima volta ci accorgiamo di un fenomeno che al momento ci sconvolge. Le ombre non corrispondono alla posizione geografica di questa parte del mondo: quello che doveva essre il lato in ombra, perché a nord, è invece in piena luce. Questo significa che tutto l’abitato è illuminato da luce artificiale proveniente dai satelliti geostazionari che, anche in questa zona di mondo, forzano i raggi solari ad attraversare la cappa che ci sovrasta.

Entriamo nonostante sulla parete d’ingresso spicchi la scritta “la stanza dell’oblio” e richiudiamo la porta dietro di noi. Il buio è sconcertante. Le finestre che da fuori si vedevano aperte in realtà sono chiuse da un vetro nero che lascia solo intravedere la posizione sul muro disegnando un rettangolo impercettibile col magico potere di catturare l’attenzione. I nostri sguardi vengono attratti da quei buchi neri su nero e i pensieri stessi sembrano risucchiati senza possibilità di ritorno dal vortice sensoriale che si crea. Non c’ è paura in quella sensazione di svuotamento ma solo sbalordimento per la scoperta che il buio non è sempre uguale e il senso di “non esistere”, che il luogo vorrebbe farci sperimentare, ci imprime invece una gran voglia di rimpiazzare quello che viene tolto.

Usciamo senza aver percezione del tempo di permanenza dentro la “stanza dell’oblio” e la prima cosa che vediamo è l’alberello che come un dito puntato al cielo sembra volerci indicare la strada. Ci sentiamo leggeri come se avessimo perso una zavorra di cattivi pensieri, pronti e curiosi di proseguire la visita.